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I veri nodi del Pnrr e una proposta operativa per l’attivazione. Scrive Tivelli

Secondo i dati dell’Osservatorio Pnrr “The European House-Ambrosetti” solo il 6% dei finanziamenti è stato speso e solo l’1% è stato completato. Quale soluzione auspicare? L’opinione di Luigi Tivelli

Le notizie sul Pnrr dei giorni scorsi sono un po’ note a tutti. Per un verso gli uffici competenti della Commissione europea evidenziano che c’è bisogno di una ulteriore riflessione ai fini dell’erogazione dell’ultima tranche del Pnrr.

Dall’altro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si sono incontrati e a quanto risulta hanno parlato soprattutto dei nodi relativi alla attuazione del Pnrr.

Per un altro verso ancora però la presidente Meloni, e qualche altro ministro, tendono ad evidenziare che per loro la “polpetta del Pnrr” (che non mi sembra proprio di per sé “avvelenata”) è una polpetta preparata da altri e anche per questo i rinvii e i problemi di attuazione non dipendono da questo governo.

D’altronde in questo strano Paese, come diceva Longanesi, la responsabilità è quella cosa che dipende spesso dagli altri… Ma i problemi relativi all’attuazione all’implementazione e all’esecuzione del Pnrr non finiscono certo qui. Il “Partito dei Comuni”, sembra un po’ in agitazione perché più di qualcuno sottolinea che i comuni, specie, ma non solo, del Mezzogiorno, non sono in grado di dar corso all’attuazione effettiva del Pnrr per quanto di loro specifica singola competenza.

Più di qualcuno evidenzia poi che in varie occasioni i grandi soggetti attuatori del Pnrr in molti casi non hanno fatto che tirare fuori dai cassetti dei loro progettisti, vecchi progetti (non si sa quanto idonei a produrre effettivo valore aggiunto ed effettiva occupazione aggiuntiva) e cercare di vararli come se fossero innovativi e figli della cultura e del metodo del Pnrr.

In molte (effettivamente sono davvero troppe!) stazioni appaltanti sembra emergere che latitano i progettisti o non vi sono certo progettisti in grado di produrre progetti innovativi. Ma a questo punto, forse è il caso di chiedersi, per usare un linguaggio forbito, se il difetto stia già nel manico… In un Paese in cui le stazioni appaltanti sono quello che sono, dove latita in molte regioni e comuni, non solo meridionali, una seria cultura progettuale, era davvero il caso di affidare la concreta attuazione del Pnrr a strumenti e modelli di progettazione di tipo ordinario? Tutti dovrebbero sapere che l’Italia, se paragonata alla Francia, ha una amministrazione centrale e periferica, nelle regioni e negli enti locali, molto debole, se non proprio latitante, specie quanto a cultura progettuale.

Infatti secondo i dati dell’Osservatorio Pnrr “The European House -Ambrosetti” solo il 6% dei finanziamenti è stato speso e solo l’1% è stato completato. In un quadro in cui il 65% dei progetti passa per i comuni e di cui il 60% di essi coinvolge comuni con meno di 5000 abitanti (con le ovvie notevoli difficoltà di gestione dei progetti stessi). Così come si dovrebbe sapere che gli unici veri e grandi progetti varati nel dopoguerra in questo paese, sono stati varati da enti e strumenti di tipo straordinario. Fu così, ad esempio per la Cassa del Mezzogiorno. Credo di poter rilevare che già dai nostri contributori americani proprio alla prima esperienza col Piano Marshall, si invitava caldamente ad avvalersi di strumenti di tipo straordinario. Fu questa sostanzialmente una delle radici, che stanno alla base, della Cassa per il Mezzogiorno. Senza l’intervento straordinario tramite la Cassa non avremmo mai avuto quella prima, ma forte, infrastrutturazione del Mezzogiorno che abbiamo avuto dagli anni 50. Così come non ci sarebbero state in tanti comuni del Mezzogiorno molte scuole, reti idriche, né tanti altri strumenti e canali di infrastrutturazione del territorio e anche significative basi strutturali per la vita civile. Ciò avvenne perché c’era nella Cassa un “cervello progettuale”, c’erano delle serie e solide competenze di cui potevano disporre comuni e provincie (all’epoca le regioni non c’erano, ma non è che poi abbiano dato certo una grande prova…) del Mezzogiorno.

Ma va riconosciuto che il primo a sostenere e ribadire con insistenza, fino ai giorni nostri, che occorreva una agenzia, un soggetto, uno strumento straordinario, simile alla Cassa del Mezzogiorno per garantire una effettiva attuazione del Pnrr fu Giorgio La Malfa. Il quale lo fece già in un importante webinar del febbraio del 2021, a cui partecipavo anche io, così come anche Romano Prodi, che accennò alla necessità di una figura di rilievo come quella di un commissario straordinario per il Pnrr.

Ora, addirittura, un economista serio, aperto e intelligente come Nicola Rossi, dalle colonne del Foglio, nei giorni scorsi si è posto la questione se, visti i problemi attuativi che si incontrano, e visto che non pochi flussi di spesa finiscono ad avere ben scarso effetto sul valore aggiunto e sull’occupazione, non fosse il caso di rinunciare alla parte di quei fondi del Pnrr che non ci vengono regalati, ma prestati a debito dall’Unione europea.

La questione certamente è seria. Tanto più che fatica ad andare a regime, quell’operazione, che il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto condurre, di spostare di fatto il quadro operativo del Pnrr dal ministero dell’Economia alla presidenza del Consiglio. Sembra che il ministro Fitto, pur sempre con intelligenza e alacrità, debba correre a mettere una serie di toppe sia nel rapporto con l’Unione europea, sia per quanto riguarda il funzionamento del quadro di comando interno del Pnrr.

Certo, il modello fu varato da Mario Draghi, che però ha dovuto costruire in corsa un modello e un progetto di intervento fatto sulle traballanti fondamenta gettate dal suo predecessore Giuseppe Conte. C’è poi il fatto che per l’Unione europea, per la Commissione e per i molti tecnocrati che in essa operino, Mario Draghi era una garanzia, mentre credono fatichino un poco ad adeguarsi alla Meloni. Un presidente del Consiglio di cui non riconoscono né le grandi competenze in materia né lo standing internazionale di cui godeva lo stesso Draghi.

A questo punto c’è da porsi un interrogativo. Piuttosto di correre il rischio che per non pochi aspetti, l’attuazione del Pnrr sia una delle tante (ma forse la più grande) occasioni perse della politica economica di questo Paese non sarebbe meglio pensare, ad una struttura commissariale? Una sorta di Commissario plenipotenziario, come fu il Generale Figliuolo per la pandemia?

Anche perché la normativa in atto che prevede poteri sostitutivi delle amministrazioni centrali nel caso in cui non funzionino le amministrazioni locali sembra sostanzialmente farraginosa e di difficile applicazione. E poi sappiamo che non è che varie amministrazioni centrali siano più efficienti di certe amministrazioni locali. Visto che non si è voluto scegliere il modello di una agenzia con poteri straordinari sin dall’inizio dell’attuazione del Pnrr forse è meglio ricorrere oggi, mentre manca ancora qualche anno, alla figura di un commissario e a una struttura commissariale piuttosto che non si riveli come certi acquedotti del Mezzogiorno che disperdono più del 70% dell’acqua che in essi circola. Ciò vorrebbe dire che solo il 30% delle risorse economiche che rimangono per il Pnrr avrebbe uno sbocco. I circa 200 miliardi inizialmente previsti, per un verso si assottiglierebbero di molto, per un altro verso non andrebbero certo ad effettivi investimenti generatori di valore aggiunto e di occupazione.

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